Ha firmato 'Crash', 'Million Dollar Baby' e anche '007'. Ora racconta i reduci dell'Iraq. Per vincere a Venezia. E per dire no alla guerra Colloquio con Paul Haggis

Per favore, ho bisogno di una sigaretta. Paul Haggis ha un'aria mite, modi pacati e sguardo sereno. Eppure, si agita sulla poltrona. Qualcosa lo rende nervoso. "Stanotte ho fatto un sogno", sussurra: "È il mio incubo ricorrente. Vedo la mia lapide e, incise nella pietra, leggo le parole: 'Qui giace Paul Haggis, creatore di Walker Texas Ranger'". Quando, cinque anni fa, il cinquantaquattrenne sceneggiatore e regista canadese si è svegliato per la prima volta nel cuore della notte, tormentato dai suoi trascorsi televisivi, ha capito che era il momento di cambiare. "Qualunque cosa pur di far dimenticare al pubblico il telefilm più brutto del mondo", scritto in sette giorni nel 1993 e ancora in onda su Italia 1, e per evitare che il suo nome, oggi legato al premio Oscar per 'Crash' e a una solida fede democratica, passasse alla storia come quello dell'uomo che aveva trasformato il barbuto Chuck Norris in un giustiziere reazionario col cappello da cowboy. A salvarlo dagli incubi è arrivata l'ispirazione che lo ha portato a scrivere 'Million Dollar Baby', il pluripremiato film diretto da Clint Eastwood nel 2004, e poi 'Crash', il suo esordio alla regia.

È un'estate di festival italiani per Haggis: dopo esser stato presidente della giuria dell'Ischia Global Fest diretto da Pascal Vicedomini, e in attesa che la sua seconda prova da regista, 'In the Valley of Elah', venga presentata in concorso a Venezia, il regista aspira una boccata di fumo e cerca di godersi la sua seconda vita ("Anche se temo che di 'Walker Texas Ranger' non mi libererò mai."). Dopo altri due film scritti per Eastwood ('Flags of our Fathers' e 'Lettere da Iwo Jima') e il fortunato incontro con 007 (ha scritto 'Casinò Royal' e il nuovo 'Bond 22'), il regista aspetta di vedere come il pubblico accoglierà 'In the Valley of Elah', con Tommy Lee Jones e Charlize Theron. Il film, che uscirà negli Usa il 21 settembre e Mikado distribuisce in Italia a fine novembre, racconta di un sodato della guerra in Iraq che scompare misteriosamente durante una licenza in America. "L'idea mi è venuta grazie a un articolo sui disturbi da stress post traumatico nei reduci dal fronte iracheno", racconta Haggis: "Leggendolo, ho capito che bisognava raccontare i costi nascosti di questa guerra".

'In the Valley of Elah' sarà quindi il suo film più politico.
"Diciamo che sarà un film politico fatto in maniera non politico: che si sia a favore della guerra o meno, bisogna sapere qual è il prezzo che paghiamo. La maggior parte degli effetti della guerra ci viene nascosta, vediamo solo quello che ci mostrano i media. Ho sentito la necessità di raccontare un evento che sta distruggendo la vita di tantissime persone, perché credo che i film debbano parlare del tempo in cui viviamo".

Il cinema assumerà per la guerra in Iraq la stessa funzione di catarsi collettiva che ha avuto per il Vietnam?
"La maggior parte dei film sul Vietnam è stata fatta dopo la fine della guerra. La responsabilità dell'artista è invece porre delle domande su quello che succede adesso: fare questo film tra dieci anni sarebbe troppo facile. Avrei voluto realizzarlo già nel 2004, ma il mio agente mi ha fermato. C'era una bandiera a stelle e strisce sul tetto di ogni casa, il patriottismo era la risposta alla paura e, probabilmente, nessuno avrebbe recepito una storia del genere. Ma io ho sentito che il progetto non andava abbandonato e che era mio dovere sollevare certe domande".

Svelare i nervi scoperti dell'America contemporanea sembra essere una costante nelle sue storie. Dal razzismo in 'Crash' all'eutanasia in 'Million Dollar Baby'.
"Mi interessa porre alla gente domande alle quali io stesso non riesco a rispondere. Interrogativi aperti. Spesso, in una situazione disperata, anche le brave persone prendono decisioni sbagliate, con conseguenze devastanti su loro stessi e su gli altri. Amo scrivere di persone normali messe davanti a scelte difficili".

Il suo prossimo progetto parla del fotografo Kevin Carter. Un altro film sulle 'scelte difficili'?
"Sarà un film sul ruolo politico dell'artista. Racconterà la storia di Carter, da quando, negli anni '80, documentava il Sudafrica dell'apartheid, al momento in cui si trasferì in Sudan per fotografare la guerra civile. Fu lui, con la celebre foto apparsa sulla prima pagina del 'New York Times' - ritraeva una bambina moribonda con alle spalle un avvoltoio in attesa della sua fine - a far conoscere a tutta l'America la tragedia del Sudan. Carter vinse il premio Pulitzer, ma quando gli fu chiesto che fine avesse fatto la bambina, lui rispose che non ne aveva idea. Due mesi dopo, si suicidò".

Per la 'responsabilità politica' del suo ruolo di artista sarebbe dovuto intervenire sulla realtà che documentava?
"Non lo so, anche questo è un problema aperto. Cerco sempre di mettermi nei panni dei miei personaggi: cosa avrei fatto al posto di Carter? Come avrei agito nei panni dei protagonisti di 'Crash'?".

Se l'America di oggi è quella di 'Crash', c'è da chiedersi se sia pronta a un presidente nero e di origini musulmane come Obama.
"Io credo di sì. Obama è un candidato fantastico e, quanto al razzismo, non si tratta di un problema specificamente americano. La razza è solo un altro degli stereotipi su cui si fonda l'intolleranza. Per questo credo che 'Crash' racconti qualcosa di universale, e non solo ciò che avviene a Los Angeles o negli Stati Uniti. Ho fiducia comunque che il mio Paese possa maturare. Dopotutto, negli anni '60, anche avere un presidente cattolico come Kennedy sembrava impossibile. Poi l'America si è dimostrata pronta".

Ha cominciato lavorando in televisione. Quanto incidono i contenuti e i linguaggi televisivi sulla società americana?
La televisione di oggi è mostruosamente cinica: troviamo piacevole vedere altre persone in situazioni ridicole o disperate e tutto questo svilisce la nostra cultura. C'è una scena in 'In the Valley', in cui un uomo viene arrestato per aver torturato dei polli: è un impiegato sottopagato, non ha il controllo della propria vita e tortura le sole creature sulle quali può esercitare un potere. Noi facciamo lo stesso. Da spettatori proviamo piacere nell'esercitare un controllo voyeuristico sulle persone oggetto del nostro sguardo".

Ma la televisione è anche un crocevia di idee e di autori che, come lei, attraversano piccolo e grande schermo.
"In effetti serie televisive come 'Thirtysomething', in cui ho avuto la fortuna di lavorare negli anni '80, o 'Hillstreet Blues', hanno in qualche modo rivoluzionato il linguaggio. Questa è la televisione che mi interessa, quella che racconta delle storie e pone delle domande. Purtroppo nel cinema c'è ancora un certo pregiudizio nei confronti di chi viene dal piccolo schermo. Quando cercavo i finanziamenti per 'Crash' nessuno mi dava credito perché lavoravo in tv. Ora c'è uno scambio sempre più frequente tra questi due mondi: autori, registi e attori passano dalla tv al cinema, l'unico problema è che poi si dimenticano da dove vengono."

Lavora con Clint Eastwood da quattro anni, eppure avete idee politiche molto diverse. Un rapporto difficile?
"Ogni volta che si pensa di conoscere Clint, ci si accorge di essersi sbagliati. Tutti sanno che è un repubblicano, ma in fondo, chi può dire con certezza cosa fa nel segreto della cabina elettorale? È un uomo sorprendente, e infilarlo in una categoria, dal punto di vista politico e cinematografico, sarebbe riduttivo. Basta pensare a 'Flags' e 'Letters': ha raccontato la storia americana dal punto di vista giapponese, quale altro regista lo ha fatto? Il mio ultimo film prende posizione molto duramente contro la guerra in Iraq, ma, anche in questo caso, Clint, pur avendo idee differenti, è stato fondamentale: senza di lui non sarei mai riuscito a farlo".

È alla seconda regia e continua a lavorare come sceneggiatore. In quale ruolo si sente più a suo agio?
"Non saprei. Scrivere mi provoca una sofferenza costante. Sul set almeno vedi in maniera diretta i frutti del tuo lavoro, ma sbatti anche la faccia contro i tuoi errori in maniera spietata. È un inferno comunque. Probabilmente dovrei cambiare mestiere."