La forza etica di Rinaldi è stata di avere più bersagli. Abbiamo dato calci a tutti. Mai cortigiani di nessuno o amichetti di qualcuno

Era un martedì mattina dell'aprile 1996. E all''Espresso' si discuteva delle elezioni politiche appena concluse, vinte dall'Ulivo di Romano Prodi. Claudio Rinaldi mi chiese: "A questo punto, che cosa dobbiamo fare?". Gli risposi d'impeto: "Dobbiamo metterci di traverso". "In che senso?", domandò lui. "Nel senso che dobbiamo raccontare ciò che faranno Prodi e i suoi ministri come se non fossero il nostro governo, il governo che abbiamo votato anche noi". "È esattamente quello che penso anch'io", concluse Claudio.
Perché lo ricordo? Perché, in molti ritratti di Rinaldi scritti dopo la sua scomparsa, 'L'Espresso' diretto da lui viene dipinto come un giornale che ha avuto un bersaglio solo: Silvio Berlusconi. Ma non è andata così. La forza etica e professionale di Claudio è stata di avere più bersagli. E di raccontare tutti i potenti della politica nello stesso modo: schietto, brusco, senza sconti. A cominciare dalla parte che giudicavamo più vicina.

Le tante caustiche pagine dell''Espresso' dedicate al governo Prodi e poi al governo D'Alema sono l'esempio di un paradosso positivo: una direzione di sinistra che non ha riguardi per la sinistra. Ci comportammo così perché non volevamo essere cortigiani di nessuno. E neppure amichetti di qualcuno. Ricordavamo entrambi quel che aveva detto tanti anni prima il fondatore dell''Espresso', Arrigo Benedetti: "M'infurio quando un giornalista mi spiega che il suo patrimonio sono le amicizie tra i politici". A farne le spese furono soprattutto i Ds. E più di tutti l'uomo forte della Quercia: Massimo D'Alema, segretario del partito e poi presidente del Consiglio. Nei confronti di Max ci comportammo con ferocia. Da vero manigoldo, inventai il personaggio di 'Dalemoni' (D'Alema incrociato con Berlusconi). Claudio ci costruì una copertina al vetriolo. Quando Max replicò, noi insistemmo. Anche Walter Veltroni non si salvò. Ci facemmo beffe dei loro primi libri. E il giorno che esplose Affittopoli, le nostre non furono carezze.

È bene aggiungere che non eravamo eroi. Avevamo alle spalle un editore liberale che non metteva becco nelle nostre carognate. In più, da veri ingenui, ci si illudeva che l'asprezza dei nostri articoli avrebbe contribuito a rendere più laica, tollerante e liberal la sinistra italiana. Era un gioco rude che ci appariva necessario perché la vedevamo troppo arrogante, autoritaria e vogliosa di castigare chiunque osasse disturbare il manovratore. Le reazioni del Bottegone e di altri palazzi rossi o rosa non mancarono. Ma a ripensarci oggi, non furono mai colpi violenti. C'erano dei big che rognavano di brutto: "Perché ci prendete a calci su ogni numero dell''Espresso'?". Qualche eccellenza cominciò a negarci le interviste. Qualcun altro si sfogava con la proprietà, sgranando il rosario dei nostri reati politici. Ma la faccenda finiva lì, perché la proprietà non ci diceva nulla. O ne parlava soltanto con Rinaldi. E lui teneva tutto dentro di sé. Nel febbraio 2006, Claudio raccolse i suoi articoli sulla sinistra in un libro pubblicato da Laterza: 'I sinistrati. L'odissea di Prodi, D'Alema & Co'. L'ho riletto in questi giorni e mi sono chiesto: è servita a qualcosa la sua franchezza professionale, e quella della piccola truppa che lo affiancava? La risposta è no. Le dieci sinistre di oggi sono peggio delle tre sinistre di allora. Ma il motto di Claudio e il nostro era: 'Fai quel che devi, avvenga quel che può'. In più, ecco il segreto di quegli anni: ci siamo anche divertiti, come quattro amici al bar.